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33a Domenica dopo Pentecoste | L’abito dell’umiltà felice che porta la grazia

del pubblicano e del fariseo

Vangelo secondo Luca 18, 10-14

Oggi, nel nostro viaggio attraverso i misteri del Vangelo, entriamo con coraggio nel periodo liturgico più bello e profondo dell'anno: il Triodo[1]. Esso apre la strada a una vera e propria scuola di pentimento, di umiltà, di preghiera, ma anche di ascesi spirituale, che ci rivela e ci (ri)apre le porte del Regno dei Cieli.

Il Triodo consiste in tre settimane preparatorie, che comprendono quattro domeniche prima dell'inizio della Santa e Grande Quaresima, seguite da altre sette settimane, comprendenti sei domeniche di Quaresima. I cristiani hanno sempre visto in queste dieci benedette settimane del Triodo la grande opportunità di incontrarsi più pienamente e veramente con Cristo stesso, il Signore della vita, di salire i gradini del pentimento, di abbracciare la Croce, di indossare l'abito dell'umiltà, di assaporare la dolce ascesi, di salire i gradini del Calvario - per assaporare, alla fine, la Risurrezione.

I dieci passi - la via del compimento

Le dieci settimane del Triodio sono i dieci passi che ci portano al compimento, alla perfezione, alla vita vera ed eterna. Dieci sono anche i comandamenti del Signore, dati a Mosè nell'Antico Testamento, comandamenti che ci allontanano dalle cose malvage, per farci aderire a quelle che sono gradite al Signore, nella coscienza che tutta la legge e i profeti sono contenuti nel mistero dell' amore.

Le quattro domeniche preparatorie ci ricordano i primi quattro giorni del Genesi, in cui tutto il mondo visibile - la creazione - fu plasmato (Gen 1, 1-19). Le sei domeniche di Quaresima prefigurano il giorno dell'uomo, il sesto giorno, quello in cui l’essere umano riceve la vita dal Creatore. E tutte insieme devono condurci al settimo giorno, che è il giorno del Signore - la settima domenica e ultimo passo, gioia perfetta - la Risurrezione.

Se ci atteniamo solo al giorno dell'uomo, non potremo gustare la risurrezione, non potremo gustare la pienezza e l'eternità. Per questo abbiamo bisogno anche di tre settimane di preparazione, per passare dalla carne allo spirito, e di altre sei settimane di lotta ascetica, a cui aggiungeremo un altro passo, una settimana di sofferenza insieme, per passare vittoriosamente dallo spirituale al veramente divino.

Oggi ci avviamo nel nostro lungo e faticoso cammino, camminando con benedizione verso il primo gradino delle virtù, quello dell'umiltà, con la parabola del pubblicano e del fariseo, che la Chiesa ci pone davanti - in cui scopriamo come indossare l'abito della felice umiltà, che porta la grazia purificatrice.

“Ad alcuni che si ritenevano giusti e disprezzavano gli altri, disse questa parabola” (Lc 18,9).

Il Salvatore si prepara alla mistica ascesa verso Gerusalemme per abbracciare la sofferenza che sarà la nostra redenzione al termine della sua opera di salvezza nella Galilea delle genti. Poco prima del suo ingresso a Gerico, dove compirà anche due grandi miracoli (uno del corpo - la guarigione del cieco - e l'altro dell'anima - il pentimento del pubblicano Zaccheo), il Signore racconta una serie di parabole profondamente toccanti, l'ultima delle quali è quella del pubblicano e del fariseo - raccontata soprattutto a coloro che si ritenevano “giusti e disprezzavano gli altri”.

La parabola, pronunciata da Cristo, si è rivelata una vera e propria radiografia spirituale dei tempi di allora, così come lo è oggi. Ci verranno presentati due personaggi - un pubblicano e un fariseo - che camminano entrambi sulla via benedetta fin dall'inizio, con l'intenzione di compiere una buona azione davanti a Dio: “salirono al tempio a pregare ” (Lc 18,10).

Cosa c'è di meglio e di più bello della preghiera? Sebbene l'inizio abbia messo in luce due intenzioni ammirevoli, ciò che segue sfumerà due atteggiamenti completamente diversi: l'orgoglio (il peccato cardinale dell'umanità) del fariseo e l'umiltà (il rimedio universale che ci restituisce la vita) del pubblicano.

Il venerabilissimo Porfirio il Kavsokalivita diceva dell'umiltà: “Il primo fondamento dell'uomo per comprendere e discernere la verità è l'umiltà”.

Il pubblicano e il fariseo - Umiltà e orgoglio

Chi erano i farisei? Un gruppo religioso (con una forte influenza politica) all'epoca del Salvatore Cristo, difensore del rigoroso giudaismo e dell'Antica Legge. Vedevano nella fedeltà ai comandamenti dell'Antico Testamento di Mosè e alla tradizione orale l'unico modo per sfuggire al giogo oppressivo dei conquistatori romani e per ereditare il Regno (che volevano fosse restaurato qui sulla terra) - il grande sogno di tutti gli ebrei di essere e vivere veramente (come) nel seno di Abramo.

I farisei erano persone devote, pie e molto avide (l'apostolo Paolo era un fariseo), si attenevano alla legge di Mosè, che doveva essere conosciuta e rispettata “ad literam”, in tutti i 614 comandamenti presenti nel Pentateuco[2]. Oggi il termine fariseo ha assunto una sfumatura completamente diversa, negativa: essere fariseo significa essere ipocrita, falso e doppiogiochista.

Nella parabola che ci precede ci rendiamo conto che il peccato più grande del fariseo è stato quello di non avere bisogno di Dio, di escluderlo, non solo dalla sua vita, ma persino dalla sua stessa preghiera. Dio non aveva più bisogno di fare nulla, tutto era compiuto, in un doloroso inganno, dal fariseo. Il suo discorso interiore, del resto, non è nemmeno una preghiera, ma un vanto malato avvolto nella veste dell'orgoglio: “Ti ringrazio di non essere come gli altri uomini, stupratori, ingiusti, adulteri, o come questo pubblicano” (Lc 18,11).

 

  • “Digiuno due volte alla settimana, do la decima di tutto quello che guadagno” (Lc 18,12) - la legge di Mosè imponeva un digiuno rigoroso, un giorno all'anno, nel giorno dell'espiazione, ma il fariseo digiunava due volte alla settimana;
  • “Io do la decima di tutto quello che guadagno” (Lc 18,12) - la legge non imponeva la decima di tutto il guadagno, ma solo di alcuni prodotti agricoli, non di più - “voi date la decima della farina fine, dell'aneto e del cumino, ma avete lasciato le parti più pesanti della legge: il giudizio, la misericordia e la fede” (Mt 23,23).

Comprendiamo, quindi, che questo fariseo era un uomo che cercava di adempiere ai comandamenti del Signore con un eccesso di zelo fuori dal comune. Voleva essere più di un semplice adempitore della legge di Mosè, desiderava andare oltre le rigide prescrizioni della Legge, accecato dal proprio orgoglio.

Chi erano i pubblicani? Esattori di tasse e imposte, odiati dagli ebrei perché raccoglievano (e si arricchivano con) denaro portando le insegne dell'imperatore di Roma, di Cesare, che per i farisei erano simboli pagani. Un esattore delle tasse era impuro secondo la Legge per il solo fatto di maneggiare monete con simboli pagani. A questo va aggiunto l'eccesso di zelo con cui alcuni pubblicani facevano torto ai loro stessi fratelli di sangue.

L'esattore delle tasse non osa andare verso la facciata del Tempio, restando in piedi all'ingresso - “stava lontano, senza alzare gli occhi al cielo, ma battendosi il petto” (Lc 18,13) - che per gli ebrei era un segno di lutto (il peccato significa morte) - pronunciando una preghiera profonda, che ispirerà anche la preghiera silenziosa del cuore:“Dio, sii misericordioso con me peccatore” (Lc 18,13).

Il pubblicano ha trovato un tesoro spirituale: il pentimento! Si rende conto di avere un bisogno infinito di Dio, perché senza Dio non potrà mai essere perdonato (e redento). Il pubblicano scopre davvero la preghiera pura e benedetta! È lui che mette al primo posto e solo il Signore.

Quanto bene San Giovanni Crisostomo ha descritto i due poli opposti, l'umiltà del pubblicano e l'orgoglio del fariseo, dicendo che: “mentre l'orgoglio è la morte delle virtù e la vita dei peccati, l'umiltà è la morte dei peccati e la vita delle virtù”.

Cristo - l'espiazione eterna

L'esattore delle tasse e il fariseo salgono al Tempio al momento della preghiera serale dei Giudei, al momento in cui vengono offerti i sacrifici (offerte) richiesti dalla legge. Perciò, prima di tutto, i due salirono per assistere alla preghiera che comprendeva il sacrificio che veniva fatto per il perdono dei peccati del popolo d'Israele.

Nella parabola narrativa che il Salvatore ci ha presentato, c'è però un altro personaggio che non viene nominato (ombra di segretezza), ma di cui tutti i Giudei erano a conoscenza, ossia la vittima sacrificale sull'altare, davanti al quale i presenti nel Tempio pregavano. Ogni sera, all'ora della preghiera, veniva sacrificato un agnello. Il sangue dell'agnello scorreva sull'altare per espiare i peccati del popolo ebraico. Questo è il contesto in cui i due si recarono a pregare: da qui si coglie davvero il significato nascosto di ciò che accadde.

L'“Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” (Gv. 1, 29), personaggio simbolico, personaggio di cui non si parla ma che c'è, si rivela essere Cristo stesso, che si nasconde nella sua parabola (come in altre, ad esempio quella del Buon Samaritano), come colui che ci rivela la via del vero pentimento e dell'umiltà. Nell'icona biblica di questa meravigliosa parabola ci sono tre personaggi: tra il pubblicano (umile) e il fariseo (accecato dall'orgoglio) c'è Cristo, Re eterno, che compie un sacrificio espiatorio, non solo della sera, ma per tutta la vita, per tutta l'umanità.

Il fariseo mostra che, pur salendo al Tempio per la preghiera e assistendo a un sacrificio per i peccati del popolo (quindi implicitamente anche i suoi!), non ha capito chi è veramente l'espiatore e il perdonatore e guaritore, cominciando a vantarsi di non essere come gli altri e soprattutto come il pubblicano: vedeva solo se stesso, accecato dall'egoismo e dall'orgoglio.

Il pubblicano, però, non osava alzare gli occhi al cielo, battendosi il petto e il cuore con il pugno, perché da ogni uomo escono “pensieri malvagi, omicidi, adulteri, fornicazioni, furti, false testimonianze e bestemmie” (Mt 15,19). L'esattore delle tasse comprende il mistero dei misteri, crede fermamente nella potenza del sacrificio dell'invisibile, di cui la parabola non parla, crede nel sacrificio del Salvatore - è proprio qui che avviene una profonda conversione, la metanoia.

Anche noi oggi comprendiamo che non è con le nostre opere che i nostri peccati saranno perdonati, ma con il sacrificio del Salvatore, che perdona i nostri peccati e ci salva, esortandoci a compiere le azioni confessate dal fariseo e a mostrare l'umiltà del pubblicano, e non il contrario.

Dall'Agnello del Tempio all'Agnello di Cristo

Al centro della preghiera dei due che salgono al Tempio c'è il sacrificio, Cristo Signore stesso, raffigurato dall'agnello portato in sacrificio, secondo l'usanza ebraica del tempo. L'agnello Cristo è il personaggio (ancora) sconosciuto, invisibile, nascosto nell'ombra del mistero, in questa parabola, e senza il quale non possiamo comprendere il significato più profondo di questa parabola, che segna anche l'inizio del cammino di pentimento. Ma ci apre a una nuova prospettiva, all'inizio del Triodo, dieci settimane prima della passione redentrice e della crocifissione e risurrezione dell'Agnello Cristo, che ci darà la vita eterna.

Dall'agnello del Tempio, davanti al quale i due pregavano, noi che siamo all'inizio del nostro cammino di necessità, siamo chiamati a conoscere (di più) veramente l'Agnello Cristo, che sta davanti a noi su ogni altare delle chiese cristiane, per donarsi a noi nel mistero della Liturgia.

Oggi, il fariseo che è in ognuno di noi deve acquisire l'umiltà del pubblicano per poter gustare l'Eucaristia, il sacrificio incruento di Cristo, che si dona a tutti per la vera vita. Prima di vedere il Signore risorto (dopo il lungo cammino della Quaresima), noi (già) discerniamo il mistero con cui egli si mostra a noi come Sacrificio vivificante.

La preghiera - il fondamento del pentimento

La preghiera“O Dio, sii misericordioso con me, peccatore”, pronunciata dal pubblicano, è la preghiera da cui deriverà in seguito la preghiera del cuore : “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi misericordia di me”. La differenza tra la preghiera del fariseo e quella del pubblicano è la giustificazione malata e la mancanza di umiltà del fariseo. Il pubblicano prega con pentimento, comprendendo che solo il Signore può perdonarlo, espiarlo e salvarlo. Cristo è tutto!

Oggi il pentimento del pubblicano diventa il mio pentimento. Quel Signore abbi misericordia di me, pronunciato dal pubblicano, diventa la mia preghiera. Il perdono ricevuto dall'esattore delle tasse diventa il mio perdono (e cosa c'è di più bello che indossare di nuovo la veste del perdono). La fede e la preghiera del pubblicano (per quanto povere), diventano il mio pentimento (per quanto piccolo e debole), e tutte insieme, alla fine, sono le pietre di base su cui Cristo costruisce la sua Chiesa in questo mondo (decaduto).

Il pentimento si dimostra vivificante, è il mistero della rinascita, è il mistero del perdono sempre rinnovato, è il potere di stare sempre con il Signore. Finché viviamo, siamo impotenti, e come possiamo rinascere? Solo attraverso il mistero del pentimento!

È anche il pentimento che cambia la mente di Dio, che è vinto dal suo stesso amore (San Massimo il Confessore) e dalla veste di umiltà indossata dall'uomo. Cambiare la mia mente cambia la mente di Dio. Dio si muove nella giustizia e se noi riconosciamo la nostra impotenza, abbracciati dall'umiltà, Dio cambia idea. E questo è un mistero molto grande!

La metanoia (μετάνοια) non è solo il mio cambiamento, è anche il cambiamento di Dio. Cambiando me, io cambio la mente di Dio su di me. E questo è un fatto sconvolgente, perché Dio è cambiato dal pentimento dell'uomo. Dio è cambiato dalla preghiera e dai pensieri buoni e sempre nuovi dell'uomo.

„Chi si esalta si umilierà e chi si umilia si esalterà” (Lc 18,14). (Lc. 18, 14)

Oggi abbiamo imparato che è attraverso il pentimento che si acquisisce la vera guarigione, che ci cambia dall'interno e ci umilia profondamente. Il pentimento rivela la vera umiltà e ci libera dall'inferno della disperazione che il più delle volte deriva dall'orgoglio che porta la morte.

Siamo invitati, all'inizio del Triodo - in questo profondo periodo di pentimento, nell'attesa della Risurrezione del Signore - a imparare a fare le opere buone del fariseo e ad assumere nella nostra vita l'umiltà sincera del pubblicano.

Abbiamo un lungo viaggio davanti a noi. Per alcuni sarà anche difficile e faticoso. Spesso saremo sopraffatti da pensieri e ansie profonde - ma come possiamo superare quelle del corpo in questo cammino di ascesi? Come possiamo piacere a Dio nella nostra vita? Come possiamo rinunciare ai nostri peccati, alle nostre debolezze, ai nostri vizi, alle nostre cadute? Come santificare la nostra vita? Come santificare il nostro tempo per non sprecarlo?

I Padri della Chiesa ci danno la risposta: il tempo della vita è il tempo del pentimento, il tempo del nostro ministero, perché il pentimento, come incessante volgersi e rivolgersi a Dio, non ha fine in questo mondo.

Se ogni giorno rivolgiamo la nostra mente e il desiderio del nostro cuore verso Dio e l'eterno, vedremo gradualmente che ciò che è di morte nelle nostre anime e nei nostri corpi “sarà inghiottito nella Vita ” ( 2 Cor 5,4).

Che il restante tempo della nostra vita trascorra in pace e nella conversione,

chiediamo al Signore!

† Atanasie


[1] Il Triodio è il periodo liturgico pre-pasquale, compreso tra la domenica del pubblicano e del fariseo e il Sabato Santo (prima della Pasqua) - le 10 settimane che ci preparano alla Risurrezione del Signore. Etimologicamente, la parola triodio deriva dal greco triodion (τριώδιον), che significa tre odi. Si tratta di un canto in tre strofe che viene aggiunto al servizio dell'Eucaristia in questo periodo. Il Triodion è anche il libro liturgico che contiene gli inni, le letture e le regole tipologiche del periodo. La maggior parte dei canoni del Triodion fu composta da San Teodoro Studita (†826) e da suo fratello Giuseppe Studita (†830), che integrarono i canoni precedenti di San Cosma di Maiuma e di Sant'Andrea di Creta.

 

[2] I primi cinque libri dell'Antico Testamento. Il termine deriva dal greco penta (cinque) e teukhos (compimento) - il compimento degli insegnamenti dei cinque libri. Fanno parte del Pentateuco i seguenti libri: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio.

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